Disciplina della canapa in base alla 242/2016
Le recenti prese di posizione del Ministro dell’Interno e di parte dell’opposizione di governo contro i negozi che vendono le inflorescenze di canapa e prodotti derivati (in gergo chiamati “grow shop”) e le fiere di supporto al settore hanno riportato alla luce vecchie contrapposizioni che ora, alla luce di norme che hanno disciplinato la materia, necessitano di essere valutate avendo un più precisa demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che non è.
Il settore della canapa è stato recentemente normato dalla legge numero 242 del 2 dicembre 2016 “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, la cui l’applicazione è stata chiarita attraverso la Circolare del 22 maggio 2018.
A essere regolata è la canapa sativa o industriale: in base alla legge non è più necessaria alcuna autorizzazione per la semina di varietà certificate con contenuto di THC (Delta-9-tetraidrocannabinolo, il componente psicotropo) inferiore al 0,2% e comunque non superiore al 0,6%. Gli agricoltori hanno l’obbligo di conservare per almeno dodici mesi i cartellini delle sementi utilizzate e, qualora il THC dovesse superare lo 0,6%, le piante diventerebbero sequestrabili e distruttibili.
La legge è per fini agricoli e riguarda: la disciplina della coltivazione e della trasformazione; l’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; lo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale; la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; la realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
L’art. 2 della citata legge, al comma 2, individua le seguenti categorie di prodotti ottenibili dalla canapa coltivata: produzione di alimenti e di cosmetici esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; fornitura di semilavorati quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; coltivazioni destinate alla pratica del sovescio (l’interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno); materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o diversi prodotti utili per la bioedilizia; coltivazioni finalizzate alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; coltivazioni destinate al florovivaismo.
Ne consegue, in base alla legge, che la vendita di infiorescenze in sé (attraverso i precedentemente citati grow shop o portali online) per essere considerata legale deve essere fatta rientrare, a scelta, in qualcuna delle categorie sopraindicate e che non possono essere messe in vendita all’utente le infiorescenze che non abbiano subito un processo di lavorazione o trasformazione, oppure che non abbiano una finalità esclusivamente ornamentale o come profumanti per l’ambiente: in sostanza, la citata legge non prevede la possibilità della combustione e lo “scopo ricreativo.”
La vendita di prodotti lavorati come pasta, oli, creme e altro appare invece perfettamente legale, nel rispetto delle normative dei singoli settori, in quanto la canapa ha subito una lavorazione e non è ulteriormente modificabile.
Questi presupposti hanno comunque permesso a molte aziende di trovare nuove vie commerciali, cautelandosi a loro modo legalmente anche attraverso descrizioni del prodotto, nelle confezioni di inflorescenze o nei materiali pubblicitari, che rimandano a un “uso tecnico”.
Le concrete interpretazioni che si sono date della norma in questione mostrano quanto sia una questione molto controversa nella giurisprudenza: esistono pronunce che ritengono comunque lecita la cessione di derivati della canapa nei casi in cui il THC rimanga entro il limite del 6% e pronunce di altro avviso.
Tra le prime, quella della sesta sezione penale della Cassazione che, con una sentenza depositata il 31 gennaio, ha ribadito come la vendita di ‘cannabis light’ è lecita così come l’uso dei prodotti realizzati con essa e che questi non possono essere sottoposti a sequestri preventivi. Inoltre, dalla liceità della coltivazione sancita per legge, deriverebbe la liceità dei prodotti contenenti un principio attivo di THC inferiore allo 0,6%, intendendola ai fini giuridici sostanza non stupefacente e di conseguenza sottratta alla disciplina penale prevista dal Testo unico sugli stupefacenti.
La sentenza della Cassazione penale del 17 dicembre 2018 affermava che i margini di liceità sono rigidamente quelli indicati dagli scopi cui può essere improntata l’attività agricola (il già citato art.2 della legge), tra i quali non ricorre la commercializzazione e la detenzione di sostanze a scopo ricreativo. L’attività continuerebbe così a configurare il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/1990 (Testo unico), pur se derivata da un’attività di coltivazione astrattamente lecita, sempre che nei prodotti sia rinvenibile un principio attivo in grado di indurre un effetto drogante rilevabile.
Vittorio Guabello
AEG Corporation
MAG nr.3, maggio-giugno 2019