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Human Rights: ombre nel Bahrain

Nominando il regno del Barhain, automaticamente la mente riporta al Gran Premio di Formula Uno che si disputa ogni anno in loco, a scadenza primaverile; oppure, la fantasia fa sognare una vacanza ricca di storia e cultura dal fascino mediorientale.

Il Bahrain è un piccolo Stato che si regge su un minuscolo arcipelago di 33 isole, situato nel Golfo Persico e governato da una monarchia costituzionale, sotto la guida della dinastia sunnita Khalifa.

Nell’ottobre del 2017, il re Hamad bin Isa Al-Khalifa, con un articolo sul Washington Post, rappresentava sé stesso come un paladino della “tolleranza e della convivenza pacifica fra le religioni”. Ma, al contrario di quanto il sovrano afferma tuttora, il rispetto per i diritti umani, la libertà di pensiero e opinione, nonché di informazione e stampa, non sembrano esistere onninamente nel regno da lui governato, a discapito, quindi, di chiunque non sia in accordo con la linea politica e religiosa dello Stato.

A riguardo di tutto ciò, pare proprio che i Paesi Occidentali (Italia compresa) chiudano un occhio, che la Comunità Internazionale sia connivente, e che quindi Europa, America, Arabia Saudita ed Emirati Arabi acconsentano silenti.

Non c’è dubbio che in campo vi sia una molteplicità di interessi, dove il favore sia strategico e il vantaggio reciproco.

Provando ad analizzare i fatti, apprendiamo che il Bahrain è implicato militarmente in un conflitto armato che dal 2015 sta catastroficamente devastando lo Yemen. Contro la fazione degli Houthi, ribelli sciiti locali, è alleato con altri nove paesi sunniti, facenti tutti parte della Coalizione araba, guidata dall’Arabia Saudita.

Come principali fornitori di armi, abbiamo l’Italia e i paesi sauditi sono gli acquirenti. E poi vi sono sicuramente la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America, entrambi con una propria base navale nel Golfo.

Attivisti, avvocati, politici, blogger e giornalisti di opposizione, vengono ritenuti terroristi filo-iraniani e, quindi, altamente pericolosi. Un giornalista italiano, come riporta un articolo del 2018 su Nena News, ha avuto non poche difficoltà nel raccogliere informazioni: la sua vita, come anche quella di chi avrebbe voluto denunciare la realtà locale, almeno mediaticamente, avrebbe potuto essere in grave pericolo, tanto da dover interrompere l’intervista e riscrivere quanto raccolto senza alcun nominativo. Da quanto si apprende, sembra che basti un solo piccolo dissenso nei confronti del sovrano, perché il proprio destino venga compromesso.

Il principe Sheikh Nasser, dopo aver completato gli studi in Inghilterra, è comunque un assiduo e gradito ospite della famiglia reale inglese. Con il padre Hamad ha anche presenziato a cerimonie ufficiali. Ma, di certo, non poche polemiche furono sollevate per la sua presenza alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi nel 2012, come anche per l’accoglienza amichevole che ricevette in Francia, durante il mandato di presidenza di François Holland.

Nel 1985, il Regno Unito firmò la “Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Tortura e altre Pene o Trattamenti Crudeli, Inumani e Degradanti “. Ma successivamente, nel 1988, la ratificò aggiungendovi la seguente nota: “Il Regno Unito si riserva il diritto di formulare, dopo aver ratificato la Convenzione, eventuali riserve o dichiarazioni interpretative che potrebbe ritenere necessarie”.

Ma, al di là di ciò che possa essere negato o meno, le testimonianze ci sono, parlano chiaro, e raccontano di confessioni estorte con la forza, privazioni di ogni genere, abusi sessuali, violenze, torture psicologiche e fisiche di grave entità, che avvengono nel buio delle carceri di questo minuscolo arcipelago arabo, sfavillante e dorato in apparenza.

Per non parlare della negazione del “Diritto alla Nazionalità” per i popoli che emigrano dal Sud-Est Asiatico, ai quali rimane un’unica sorte possibile: essere sfruttati nel lavoro e relegati a vivere in una specie di ‘ghetto’; Chiunque riuscirà miracolosamente a sopravvivere all’inferno della prigionia, invece, al di fuori delle mura del carcere attenderà un sistematico impedimento alla ripresa della propria professione o allo svolgimento del proprio lavoro.

Eppure, re Hamad vanta numerose e riconosciute onorificenze in tutto il mondo, come l’assegnazione di una laurea honoris causa presso la Sapienza di Roma intitolata “Re Hamad per il dialogo interreligioso e la coesistenza pacifica”, nonché la cattedra “per la formazione dei giovani di ogni parte del mondo al fine di contribuire a combattere terrorismo, estremismo e radicalismi.”

La monarchia barhainita, all’ordine dei fatti, appare non tanto costituzionale, quanto assoluta. Eppure gli investimenti italiani continuano a farvi riferimento, senza porsi troppo domande.

In conclusione, non ci resta che una triste e sconcertante verità, che ci racconta della tacita approvazione di tutti quei sistemi economici che, con la loro omertà, si sono resi complici di una politica internazionale orientata unicamente ai propri interessi strategici e petroliferi. Come sempre, come ovunque vi sia terreno fertile, e di cui la Storia stessa non può che rilasciarne una testimonianza infelice…

«Ma vi sono momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.» (Oriana Fallaci – La rabbia e l’orgoglio).

Ci rimane ancora un filo di speranza: dare voce a chi non ha voce.


Monica Agrati

Corrispondente e Pubbliche Relazioni Internazionali


MAG nr.6, novembre-dicembre 2019

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