Riprogrammare la vita: oltre la disabilità
Intervista a Irma Missaglia, Direttrice e Consigliere Delegato Sim-patia, a cura di Bruno Carenini
Visitiamo Sim-patia, Cooperativa sociale Hi-Tech di Valmorea (Como) che si occupa di disabilità. Fondata nel 1989, è apprezzata in tutto il mondo, ove è chiamata anche per consulenze e progetti internazionali.
Donna, madre, imprenditrice ma soprattutto impegnata nel sociale con molto successo. Perché in Italia tanti si lamentano e pochi invece riescono in progetti invidiabili e di successo in questo campo?
Partiamo col dire che non è un momento facile. I nostri progetti li realizziamo anche con il contributo di persone a noi vicine. Partiamo dai bisogni: è da qui che nascono le idee e poi i progetti e la chiave è intercettarli. In Italia ci si sofferma troppo spesso a sostenere le strutture storiche già esistenti senza guardare a quello che arriva di nuovo. Solo il nuovo permette di comprendere se quello che facciamo ogni giorno risponde davvero al bisogno. Se sì, andiamo avanti, altrimenti abbiamo il coraggio di modificare. Sarebbe bello essere meno rigidi nella risposta ai bisogni…
Cos’è Sim-patia?
Sim-patia è un luogo di opportunità, una residenza sanitaria per disabili motori. Nasce come luogo d’accoglienza per queste persone, con lo spirito di guardare quello che hanno e non ciò che non hanno più: insieme si prova a riprogrammare la loro vita. Sim-patia è una residenza per disabilità motoria con ventotto posti: venti sono definitivi e destinati a persone impossibilitate a rimanere a casa per l’alto costo di assistenza e qui ritrovano i loro piccoli spazi ed autonomie; otto posti, invece, sono dedicati a quelli che, dopo l’evento che ha interrotto bruscamente la loro vita, provano a riprogrammarla, a rimetterne insieme i pezzi. Non importa abbiano 20, 30, 40 o 50 anni: vogliono provarci e riprogettano davvero una vita.
Vi sono molte cose che incuriosiscono leggendo il vostro sito (www.sim-patia.it) ed altre che colpiscono per la profondità. Citiamo: “Tornare a sentirsi vivi, persone e protagonisti della propria vita.” È sicuramente qualcosa di dirompente, soprattutto se pensiamo al profondo buio nel quale vagano dopo il dramma che le ha colpite. Come riuscite a rendere tangibile e concreta questa aspettativa che date attraverso le parole?
Noi ci facciamo carico proprio del disastro che è successo nella loro vita e, insieme a loro, cerchiamo di riproporre un percorso. Il primo impegno che abbiamo quando arriva una persona è quello di capire quello che ha. Non siamo soli, e non siamo in grado di promettere nulla. La parola d’ordine di tutta la squadra è: noi proviamo. In questo verbo c’è tutta l’aspettativa, l’attesa e la speranza di provare a fare qualcosa che già da oggi possiamo fare, nella situazione in cui tutti loro si trovano, e coinvolgerli da subito. Solo così riusciamo a realizzare delle azioni, a farli tornare a muovere, comunicare, proprio partendo da ciò che hanno e lavorando sulle possibilità di quel momento. Alcune persone sono arrivate in carrozzina e si sono messe in piedi, non perché l’ospedale avesse sbagliato diagnosi, ma semplicemente perché non avevano più speranza, non si davano più opportunità. Il poter dire, vediamo cosa possiamo fare e lavoriamo anche sulla parte motoria, proviamo a farli ricamminare anche se con un bastone, questa è esperienza pratica di quello che si può dare. Non sogni, ma concretizzare un obiettivo, piccolo, ma tangibile da raggiungere.
Quello che fate va oltre la pura assistenza generica: voi stessi dite che l’assistenza non è la cosa più importante nel vostro metodo, ma lo è il passare dall’assistenzialismo all’autonomia. È un passaggio forte, etico, che certamente colpisce un individuo già provato, stimolandolo alla risposta. Come rendete possibile tutto questo?
Sono molto convinta di questo passaggio. È veramente possibile, e lo dico anche per le persone più gravi che ci sono qui e altrove. Ci sono vari livelli di autonomia che si possono raggiungere, e faccio un esempio, molto semplice, che avevo sentito raccontare da un giornalista ai suoi colleghi, una volta ricoverato qui. Diceva: “Qui al mattino, quando mi sveglio, mi domandano come voglio essere vestito: questo è rispetto ed autonomia.” Questa è la cosa più semplice, più piccola, ma che va al di là del puro assistenzialismo: ti chiedo cosa vuoi sentirti addosso proprio nel rispetto della persona. Altra cosa, li stimoliamo a riprendere in mano le azioni che facevano prima. Durante la pausa dovuta all’incidente o malattia, questa ha prodotto nella mente l’idea di aver per forza bisogno dell’altro. Facciamo quindi uscire il loro bisogno e poi li aiutiamo a lasciare l’assistenza e rendersi più autonomi: dal lavarsi i denti al mettersi le scarpe, fino ad arrivare negli appartamenti protetti dove cucinano. In un modo diverso, certo, perché non sono più in piedi ma in carrozzina, ma oggi ci sono tanti strumenti e davvero tutto questo si può realizzare.
Infatti, arriviamo proprio a questo. Abbiamo scoperto che la domotica da voi è qualcosa che va anche oltre. Alta tecnologia e domotica sono al servizio delle scienze sociali. È questo che siete riusciti a coniugare pensando alla vostra offerta di appartamenti domotici per disabili?
Sì. Direi questo e altro. Siamo partiti nel 2008 a fare gli appartamenti domotici perché una persona che avevamo qui, che avevamo rimesso quasi in piedi, doveva tornare a casa. Invece la scelta della compagna è stata tutt’altra e, tornando dal tribunale, lui era molto triste ed ho chiesto: “Cosa posso fare per te?” Lui ha risposto: “Vorrei avere una casa dove accogliere i miei figli.” Quello è stato l’input, un bisogno espresso che ci ha fatto muovere e in pochissimi mesi abbiamo trovato degli appartamenti, li abbiamo domotizzati. Nel 2008 il costo era molto alto mentre oggi, nel 2019, è una domotica veramente accessibile, anche dal punto di vista economico. Non leggiamo solo la volontà di esser moderni o innovativi, ma la volontà concreta di far sì che tutte queste persone possano gestire la loro casa.
Mi racconta quell’attimo particolare che l’ha colpita, per cui ha definito la giornata come straordinaria, quando una persona del vostro centro è rientrata, sentendosi nella propria casa?
Allora, negli anni ce ne sono stati molti. Vorrei però ricordare il primo. Avevamo qui una ragazza, che era stata investita sulle strisce pedonali a 20 giorni dal matrimonio. Era stata in coma, in Unità Spinale, ed era passata in un altro istituto, non adeguato, e quando è stata aperta Sim-patia è venuta da noi. Ha vissuto per un anno e mezzo qui, rinchiusa con il suo dolore, in se stessa: era arrabbiata con la vita e non riuscivamo a trovare lo spiraglio per entrare e fargli vedere che comunque era giovane, carina. Aveva fatto la commessa e la modella in Via Montenapoleone a Milano, aveva vissuto un’altra vita: bisognava ridargli un po’ quello stimolo. Abbiamo impiegato un po’ d’anni, però l’abbiamo messa a fare centralino presso la nostra struttura, cioè le abbiamo ridato dignità, seguendo i nostri valori e percorsi, lavorando sulle cose che aveva già. Aveva una bella presenza, un bel modo di lavorare quindi l’abbiamo resa nuovamente disponibile a se stessa, ridandole la possibilità di rimettersi in gioco. Ma non è tutto: l’ho sfidata a fare un viaggio in crociera e lei ha accettato. Così è andata e successivamente ha detto… “adesso sono pronta a tornare a casa”. Ecco, per me questo è stato davvero il compimento, il raggiungimento di un obiettivo grande: farle vedere che aveva ancora davanti una vita, anche se in carrozzina, ma bella e dignitosa.
Grazie di questa condivisione. La cosa che vi ha portato all’attenzione internazionale è sicuramente la collaborazione con il Politecnico di Milano e Como. Grazie a tutto ciò avete dato vita ad un Polo tecnologico dentro Sim-patia. Mi racconti qualcosa a riguardo.
Il Polo tecnologico è stato il valore aggiunto per poter davvero realizzare dei gesti di autonomia, per poi procedere ad una vita autonoma. Quando arrivai, già c’era una collaborazione con il Politecnico di Milano e Como, riguardo l’uso di computer destinati ad alcune persone con disabilità. Mi resi però conto, guardandomi in giro, che c’era altra tecnologia in grado di aiutare, e quindi la possibilità di sviluppo. Il Polo tecnologico è nato da un incontro con l’Ing. Rigoni, una persona straordinaria: lavorava in un’azienda, l’ha lasciata per lavorare nel sociale. Io alle volte dico, sorridendo: “è un ingegnere col cuore…”. Pian piano abbiamo creato uno spazio dove le persone potevano venire, dire quali fossero i loro bisogni, se volevano tornare a comunicare, muoversi, lavorare, leggere o scrivere. Il lavoro che fa l’Ing. Rigoni è quello di cercare in giro per il mondo se vi siano già sistemi in grado di aiutare e in caso contrario li inventa, perché l’obiettivo è quello di rispondere al bisogno. Adesso il Polo Tecnologico è diventato una grande vetrina di strumenti, e tutti quelli che sono lì significano che qualcuno in giro per il mondo li sta usando, perché ogni volta che ne facciamo uno viene replicato. Un esempio di utilità? Muoversi in questa grande struttura di tre piani in cui le persone, non avendo la possibilità di allungare il braccio per chiamare l’ascensore, sono costrette a rimanere in un piano. Quindi la prima cosa fatta dall’Ing. Rigoni è stata rendere domotico l’ascensore che ora, con un semplice clic o la pressione della carrozzina, arriva al piano. Grazie alla collaborazione di alcuni amici svizzeri l’abbiamo brevettato. Questo è uno strumento che dà autonomia, libertà, la possibilità di decidere dove sto, dove vado e cosa faccio.
Ancora una volta la sensibilità dell’uomo riesce ad arrivare oltre la tecnologia. Quando avete cominciato a percepire la sensazione che quello che stavate facendo poteva e meritava di essere comunicato o diffuso anche in altre parti del mondo, dove esistono queste problematiche? Leggo che il vostro viaggio avventura-sociale non si esaurisce qui, nel comasco. Io lo definirei senza frontiere: oggi vi stanno cercando ovunque, anche semplicemente a livello di consulenza. Mi permetta di comprendere di più questa attività, anche con un occhio a tutti i riconoscimenti internazionali che state ottenendo.
Il primo passaggio verso l’esterno è stato con i “vicini di casa” svizzeri. Una collaborazione che poi ha portato ad una successiva con Microsoft e da lì siamo volati dall’ONU, dove chiesero la nostra presenza, e per finire a Il Cairo e Johannesburg, per dimostrare la concretezza del nostro lavoro. In quella circostanza portammo la persona disabile dimostrando, durante la convention, come fosse possibile per una persona disabile avere davvero delle autonomie: si trattava di una persona rimasta tetraplegica a causa di un incidente di lavoro ed entrando sul palco, muovendo la carrozzina, comunicando con il movimento della testa, fummo in grado di trasmettere la validità delle nostre azioni sociali. Tra le collaborazioni attuali cito quello con una società portoghese, un centro per la disabilità con ragazzi cerebrolesi e con un’università sempre portoghese, oppure in Grecia per un progetto di formazione e in Ucraina, perché dopo l’avvento della guerra ci sono stati molti ragazzi mutilati. In questo momento noi collaboriamo con la comunità Emmaus, ovvero una ONG che lavora in Ucraina: abbiamo realizzato per loro la prima casa domotica per disabili. A noi piace anche formarci, ogni anno equipe e coordinatori cercano in Italia e nel mondo un momento di confronto: siamo appena rientrati da Dusseldorf, dalla fiera internazionale, dove abbiamo avuto contatti molto interessanti e, soprattutto, portato a casa un pezzetto di tecnologia che andremo ad adattare per le persone italiane. Sicuramente un passaggio molto importante è stato in America quando, in una convention organizzata dall’ONU, partecipammo alla presentazione del progetto delle autonomie sociali. Il regalo che poi ci fece il Presidente della G3 ICT è stato quello di ospitarci ad Atlanta e metterci in contatto con la Georgia Tech, dove abbiamo avuto giorni interi di confronto, sollecitandoci ad andare avanti e dire: “questa è la strada giusta!”.
Ho aperto citando la vostra mission e chiudo attraverso le sue parole: “Con la disabilità la vita non finisce ma cambia. Bisogna avere qualcuno che ti aiuti a riprogrammarla”. Se leggessero questa intervista persone con delle disabilità (o loro famigliari o amici) vogliamo lanciare a loro un messaggio? Magari per qualcuno che è ancora dentro quel periodo che definiamo di buio?
Non è così facile dire a una persona che la vita può cambiare. Io credo che la vita sia fatta di incontri ed è importante avere un incontro, qualcuno che sia una voce, una radio, un giornale, un vicino di casa che ti dica: “vieni con me, ti accompagno, ti metto in contatto”. Sono gli incontri tra persone che cambiano la vita, di questo ne sono molto convinta. Come esempio faccio accenno all’ultimo progetto realizzato per un cohousing sociale, dove abbiamo inserito persone disabili in un contesto di condominio normale, aiutate dai vicini di casa. Il tutto supportato da incontri, perché una famiglia dà una mano al disabile e il disabile l’aiuta a pagare le utenze: quindi c’è uno scambio, comunque anche economico, ma alla base di tutto questo c’è la voglia di incontrarsi e di sapere davvero che la vita può cambiare.
Bruno Carenini
Partner
AEG Corporation
MAG nr.6, novembre-dicembre 2019