Login

Lost your password?
Don't have an account? Sign Up

Era inevitabile? Breve storia della guerra della Russia all’Ucraina e sua evoluzione

Intervento di Michael L. Giffoni, Former Italian Ambassador to Kosovo, all’Accademia Tiberina, sezione campana e lucana, 27 aprile 2022


Il 24 febbraio 2022 resterà una data emblematica, di quelle che restano fisse nella storia e nelle relazioni tra popoli e nazioni, in questo mondo che sarà pure globalizzato ma purtroppo fatalmente immerso in un disordine angosciante. A differenza di quello che si sente dire spesso in questi sciagurati dibattiti da “infotainement” e talk show (soprattutto, ahinoi, in Italia), quel giorno non vi è stato il ritorno della guerra sul suolo europeo dopo la fine del secondo conflitto mondiale: tra il 1991 e il 1999 vi è stata infatti la c.d. “guerra dei dieci anni” che ha caratterizzato la violenta disgregazione della Federazione Jugoslava, che è costata 200.000 morti, 3 milioni di profughi, con punte di orrore e disumanità in Bosnia-Erzegovina e con infinite devastazioni materiali e morali in tutte quelle terre balcaniche nelle quali io ho trascorso quegli anni provando sulla mia pelle cosa significhi la parola “guerra”, il dolore profondo, indicibile, che racchiude in sé, quasi solo a pronunciarla. Ecco perché per il rispetto verso tale dolore, di guerra e delle sue implicazioni non si dovrebbe parlare a ruota libera per fare spettacolo o peggio ancora per provocare risse faziose: ci vorrebbe un po’ di umiltà perché per capire gli eventi e le dinamiche internazionali, bisogna studiarne le radici profonde, far parlare i fatti e le loro conseguenze tangibili, senza interpretazioni forzate e astrazioni ideologiche. Con questa umiltà, mi presento a voi, lieto di non essere in un talk-show ed esprimendovi quanto ho potuto capirne, anche alla luce della mia trentennale esperienza di diplomatico (ahimè in disgrazia) e di attento osservatore della realtà internazionale.

Allora torniamo al 24 febbraio, alle 4 del mattino, quando i missili russi hanno colpito installazioni militari e obiettivi civili all’interno dell’Ucraina e convogli di centinaia di mezzi corazzati hanno attraversato il confine da tre direttrici (nord, est e sud), dirigendosi verso la capitale Kyiv e le maggiori città del Paese, prefigurando in tal modo una tra le più gravi violazioni dell’ordine internazionale, vale a dire una vera e propria aggressione armata di uno stato sovrano. Qui è la novità, con il corollario e la conseguenza evidente: il dado era tratto, l’aggressione armata della Russia imperial-putiniana all’Ucraina per sopprimerne la sovranità e indipendenza azzerava in un colpo solo tutte le equazioni di sicurezza, di convivenza e, in un certo senso, anche di benessere, del continente europeo. A due mesi da quel giorno, si può sperare che le armi potranno presto tacere sul terreno, ridando speranza alla martirizzata popolazione ucraina, ma una cosa è certa: ci vorranno anni, probabilmente decenni, per ricostruire un’architettura di cooperazione e sicurezza che possa assicurare stabilità e progresso all’intero continente. Questa guerra in sé non è nuova: è iniziata, come ci hanno ricordato spesso gli ucraini negli ultimi mesi, nel 2014 con l’incursione russa che ha portato all’annessione della Crimea e alla secessione di parti del Donbass, nelle aree di Donetsk e Lugansk. Ma le radici sono lontane, affondano nei secoli scorsi: possiamo cogliere le basi recenti del conflitto nell’agonia dell’impero sovietico, andando oltre lo stesso Vladimir Putin, poco più di 30 anni fa e lì vi voglio portare.


1. Un salto indietro: da Pietro il Grande a Gorbaciov. La profondità strategica.

Ho detto che volevo portarvi al crollo dell’URSS. È vero ma ho detto anche che le radici profonde risalgono a molto prima. E allora facciamo un balzo indietro e arriviamo, non dico a Ivan il Terribile, ma a Pietro il Grande. A cavallo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, Pietro il Grande è il primo zar a fare del concetto di profondità strategica il principio di base della politica di difesa della Russia, che già allora aveva più o meno gli stessi confini di ora e, allora come oggi, era già sterminata, vastissima. Sicuramente tutti abbiamo avuto modo di soffermarci davanti a una mappa del globo, ebbene sono sicuro che tutti abbiamo notato con stupore e forse timore l’immensità della Russia, che si estende su 17 milioni di chilometri quadrati e copre 11 fusi orari: è una dimensione enorme, radicata nella nostra coscienza collettiva e individuale.

Ovunque ci troviamo, in un qualsiasi punto del globo, c’è sempre una Russia non lontana da noi, a est o a ovest, a sud o nord. Se la Russia nella parte asiatica, è abbastanza sicura, anche perché quasi completamente ghiacciata e inospitale, a Ovest è praticamente indifendibile, perché non ha barriere naturali a protezione dei suoi centri nevralgici ed è quasi interamente pianeggiante e solcata da grandi fiumi. L’invasione da Occidente non era già allora un pericolo ipotetico: meno di un secolo prima, dopo la morte di Ivan il Terribile e il c.d. periodo dei torbidi, i polacchi erano entrati a Mosca e vi avevano regnato un paio d’anni. L’intuizione dello zar Pietro fu di mettere quanto più terra possibile tra il Cremlino e i suoi vicini. L’impero iniziò ad allargarsi verso il Baltico (e infatti fondò San Pietroburgo che ne sarà capitale per un lungo periodo), verso il Mar Nero il Caucaso e l’Asia centrale. Fu Pietro il Grande a portare la frontiera fino al Mare d’Azov e al fiume Dnipro, nomi che ci sono ora familiari perché si trovano in Ucraina, che pre-esisteva alla stessa Russia, e dove vivevano popolazioni ucraine indipendenti con etnia e lingua diverse seppur affini, a quelle russe, nonché i cosacchi, stirpe di contadini-guerrieri da sempre in lotta con gli ottomani a sud e anche con i polacchi, gli ucraini e i russi stessi per la libertà dei loro villaggi sostanzialmente anarcoidi ma riuniti in una sorta di federazione denominata et-manato. Pietro il Grande e più tardi Caterina di Russia inglobarono nell’Impero sia i cosacchi (con le buone maniere rendendoli le truppe scelte del proprio esercito) sia (con buone e talvolta cattive maniere) le comunità ucraine, molte delle quali erano state prima sottomesse al regno di Polonia.          

La profondità strategica, con l’aiuto del generale inverno, consentì alla Russia di salvarsi dall’offensiva di Napoleone nel 1812 e da quella di Hitler nel 1941. Restò quindi come concetto centrale della politica di sicurezza anche per l’Unione sovietica, che non a caso 2 anni prima dell’attacco del Reich, scese a patti con la Germania nazista per spartirsi il territorio della Polonia; e che non a caso, durante la Guerra fredda, inviò i carri armati a Budapest e a Praga per assicurare la tenuta del Patto di Varsavia.Il problema per Mosca è che, quando incorpori nuovi territori, inglobi anche nuove nazionalità (tuttora, solo nel territorio dell’attuale Federazione Russa, vi sono oltre 200 gruppi etnici). I sovietici, fin dai primi anni, tentarono di sedare le spinte centrifughe con rudi esperimenti di ingegneria demografica e di confini fantasiosi, che ancora oggi alimentano conflitti nell’area post-sovietica. Ma per tenere insieme il baraccone sovietico servivano 3 elementi: una salda ortodossia ideologica, che Stalin impose con il terrore e milioni di morti; una forza militare schiacciante e tecnologicamente avanzata, infine la prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. L’Urss collassò nel 1991 per il venir meno di questi elementi, dopo il disastro nucleare di Chernobil, quello militare in Afghanistan e le fallite riforme economiche gorbacioviane, la c.d. perestrojka. Si creò una costellazione di 15 Stati indipendenti che abbracciarono in gran parte il modello politico ed economico occidentale, uscito vincitore dalla Guerra fredda. Quando Putin definisce il crollo dell’URSS “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo” non lo fa perché è un nostalgico del socialismo reale ma perché è consapevole che nel 1991 Mosca ha perso la profondità strategica e questa per lui è divenuta un’ossessione, chiamiamola esterna, insieme con quella (interna) di perdere il potere (suo e degli oligarchi e apparatchik che lo mantengono) a causa di un risorgimento democratico o di una manovra di palazzo.  


Michael L. Giffoni
Michael L Giffoni

2. La disgregazione: Russia e Ucraina dopo la caduta dell’URSS

Trent’anni fa, quando la bandiera rossa con la falce e martello fu ammainata per la prima volta al Cremlino, e le 15 repubbliche di quella che era ormai la “ex” Unione Sovietica dichiararono la loro indipendenza, tutti tirarono un sospiro di sollievo per la scomparsa in maniera quasi incruenta dell’impero sovietico. Non fu proprio così, e basti qui solo menzionare il Nagorno-Karabakh, tra Armenia e Azerbajgian, la Transnistria in Moldova, le regioni autonome dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud in Georgia, per indicare aree di crisi che ancora persistono e che spesso si incendiano. Per non parlare della Cecenia, repubblica russa che aveva resistito all’invasione zarista per tutto il 19° secolo, il cui anelito d’indipendenza fu represso brutalmente in due guerre a cavallo del millennio, la seconda con il marchio indelebile di Putin che fece radere al suolo la capitale Grozny dopo aver preso il potere. Nonostante ciò, è un luogo comune sostenere che la dissoluzione dell’Unione Sovietica sia stata pacifica…Ma un punto sensibilissimo è sempre stata l’Ucraina.

Al momento dell’indipendenza nel 1991, essa spiccava per varie particolarità. Sebbene fosse esistita come stato indipendente nei tempi moderni solo per pochi anni, aveva un potente movimento nazionalista, una vivace tradizione letteraria e un forte ricordo del suo status sovrano nella storia dell’Europa prima di Pietro il Grande, e non solo. È molto grande, il secondo paese più grande d’Europa dopo la Russia, largamente industrializzato e, sul piano agricolo, è tra i principali produttori al mondo di grano e girasole. Ha una popolazione che all’epoca, nel 1991, toccava 50 milioni, seconda solo alla Russia tra gli stati post-sovietici. È strategicamente situata sul Mar Nero con quelle che erano state le spiagge più belle dell’URSS, sulla penisola di Crimea, così come il più grande porto navale in acque calde dell’URSS, a Sebastopoli. Aveva sofferto molto durante l’avanzata tedesca nell’Unione Sovietica nel 1941: delle 13 “città eroiche” dell’URSS, 4 erano in Ucraina (Kyiv, Odessa, Karkhiv e Sebastopoli) ma cominciava a uscire dal buio della memoria il ricordo di un altro evento chiave nella storia ucraina, vale a dire l’Holodomor, lo sterminio per fame, causato (e addirittura pianificato) da Stalin e compagni tra il 1931 e il 1935 che portò alla morte per inedia di 5 milioni di persone, le famiglie dei c.d. kulaki, piccoli proprietari terrieri ucraini che non accettarono la collettivizzazione delle terre e la requisizione statale dei prodotti. Le economie di Russia e Ucraina erano profondamente intrecciate. Lo storico Lieven scrive: “Senza la popolazione, l’industria e l’agricoltura dell’Ucraina, la Russia del XX secolo avrebbe cessato di essere una grande potenza”. Era vero anche nel 1991. L’Ucraina era significativa per la Russia geo-strategicamente, culturalmente e storicamente. Le lingue russa e ucraina sono diverse e distinte (e l’Ucraina ha una letteratura notevole), ma sono affini, anche più affini dello spagnolo e il portoghese. Tra l’altro, la maggior parte delle persone conosceva entrambe le lingue: era una nazione genuinamente bilingue, una cosa rara. Nessun luogo come l’Ucraina ha avuto un ruolo così centrale nell’immaginario storico nazionalista russo adottato e fatto proprio poi. Per i primi 20 anni di indipendenza, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina interferendo in vari modi, mai in maniera troppo diretta e soprattutto armata. Accadeva quel che sembrava bene accadesse per Mosca: la numerosa popolazione russofona dell’Ucraina garantiva, o sembrava farlo, che il paese non si allontanasse troppo dalla sfera di influenza russa, e tanto bastava a Boris Eltsin e anche al Putin dei primi anni.


3. “Dove inizia la madrepatria?” Dal punto di vista dell’Ucraina

Appena indipendente, l’Ucraina si trovava quindi già carica delle angosce che hanno da sempre caratterizzato la nascita di una nazione, aggravate dalla consapevolezza di essere nel mirino di Mosca e del nazionalismo russo sopito ma non estinto. Per tutti gli anni ’90 del secolo scorso, l’Ucraina era sempre descritta come uno Stato debole, uno Stato a rischio con scarse prospettive di stabilità e sviluppo: ricordo di aver letto un’analisi della CIA del ‘92 secondo la quale c’erano buone possibilità che il paese andasse in pezzi in un paio d’anni. Eppure, non è stato così. La democrazia si è radicata nella cultura politica ucraina pur con un alto livello di conflittualità e pertanto, al contrario della Russia dove il potere non è mai stato trasferito, in tutta la sua storia, a una forza di opposizione democratica, in Ucraina l’alternanza di governo è stata una costante. Chi dice che in Ucraina non vi è democrazia, francamente dice un’assurdità, soprattutto se fa il confronto con la Russia dove di democrazia non vi è mai stata neanche la minima parvenza. È una democrazia imperfetta (ma sfido chiunque a indicare una democrazia perfetta, soprattutto dopo episodi come l’assalto il Campidoglio del 6 gennaio 2021 a Washington). Basti pensare che il primo presidente, Leonid Kravchuk, che aveva promosso una nazione politica e non etnica, fu sconfitto nel ‘94 da Leonid Kucma, espressione di una nuova classe dirigente oligarchica e affaristica che, parallelamente a quanto avveniva in Russia, aveva tratto profitto dalle privatizzazioni e che per un decennio avrebbe dominato la scena politica. Qualcosa cambiò con l’ascesa di Viktor Juscenko, che, da governatore della Banca Centrale e poi primo ministro, cercò di avviare una serie di riforme economiche e sociali improntate a una chiara ispirazione europeista. Tale “boccata d’aria fresca” venne osteggiata da Kuchma che tentò di imporre il filorusso e antieuropeista Janukovich come suo successore per sbarrare la strada a Juscenko, il quale durante la campagna elettorale del 2004 sopravvisse a un avvelenamento da diossina che aveva tutti i segni di una “operazione speciale” russa.

Il primo turno di elezioni fu caratterizzato da gravi irregolarità e chiare frodi elettorali: ci vollero vibranti proteste di massa, conosciute come la Rivoluzione arancione, per ottenere un altro turno di votazioni, in cui vinse proprio Juscenko, fiancheggiato da un’altra candidata filo-occidentale, Julia Timoshenko.

Sono stato inviato a Kyiv dall’allora AR UE Solana nel 2004, nei mesi cruciali della Rivoluzione Arancione e ho potuto vedere di persona l’emergere di una comunità politica disposta a lottare per la democrazia e l’integrazione europea in opposizione alla deriva autoritaria che il paese stava prendendo in linea con quanto succedeva in Russia, dove Putin aveva iniziato a caratterizzare apertamente il regime come illiberale e repressivo sul piano interno e aggressivo e nazionalista sul piano esterno, deriva poi proseguita negli anni a seguire in maniera esponenziale. Ma, e qui sta la prova che una certa maturità democratica in Ucraina era stata raggiunta, pur nel permanere di una forte conflittualità, il fallimento del piano di riforme tentate da Juscenko portò al ritorno al potere dello stesso Janukovich nel 2010. Tutto questo fermento avveniva in un contesto di forte stagnazione economica: agli effetti della crisi finanziaria globale si aggiungeva un fattore che aveva riflessi enormi nei delicati rapporti russo-ucraini: la forte dipendenza ucraina dal gas a basso costo proveniente dalla Russia e dalle “tasse di transito” addebitate per il gas russo diretto in Europa. Un collega ucraino che avevo conosciuto durante la Rivoluzione arancione mi scriveva nel 2010 esprimendo la delusione per le occasioni mancate di riforma. “Tutto questo mentre il tempo passa”, scriveva. Aggiungeva però un altro aspetto, questo positivo, nel passare del tempo. Più passava il tempo, più l’identità dell’Ucraina si consolidava e sembrava ormai piena. “Perché cosa significa appartenere a una nazione? Come una vecchia canzone sovietica, dove inizia la madrepatria? Inizia con le immagini del primo libro che tua madre ti legge, poi con le note e le parole della prima canzone che tua madre ti canta, e poi ancora con le voci degli amici del cortile accanto…Insomma, un sentimento nazionale ucraino, unito al senso di appartenenza all’Occidente e all’Europa si è ormai consolidato, e questo è un fatto innegabile”. Della verità di quanto affermato dal mio amico mi resi conto tempo dopo, durante i fatti di EuroMajdan di fine 2013 e inizio 2014 e ancora di più in questi mesi drammatici. L’Ucraina esiste, nonostante quello che dicono e scrivono Putin e i suoi accoliti a Mosca, perché il popolo ucraino esiste e si sente tale, come parte di una nazione indipendente e sovrana.


4. La Nato e il mito della “promessa infranta”.

Abbiamo menzionato EuroMajdan e il 2014, anno che abbiamo indicato come quello dell’inizio vero della guerra russa in Ucraina, circostanza che abbiamo ignorato. Sotto Janukovich rieletto nel 2010, le proteste dell’opposizione spesso diedero vita a manifestazioni represse duramente in maniera poliziesca, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu l’annullamento da parte del governo dell’accordo commerciale tra UE e Ucraina, addirittura ratificato dal Parlamento, decisione presa da Janukovich su forte pressione di Mosca e di Putin in cambio di una serie di concessioni politiche e commerciali da parte di Mosca. Le proteste iniziate a piazza Majdan furono represse violentemente, con decine di morti, e da qui partì un’escalation concitata con la reazione della “piazza” europeista di Majdan, nella quale tra l’altro comparvero anche componenti minoritarie ultranazionaliste, la fuga precipitosa di Janukovich a Mosca, un governo provvisorio e l’indizione di elezioni anticipate poi svoltesi e vinte da Petro Poroshenko, leader nazionalista filo-occidentale che è stato poi battuto 5 anni dopo dall’attuale Presidente Volodimir Zelenskj, ex attore, russofono e di origine ebraica, che il mondo ha imparato a conoscere in questi mesi. Il regime putiniano a Mosca reagì attaccando, con l’invasione e l’annessione della Crimea e l’infiltrazione nelle regioni del Donbass a prevalenza russofona facendo partire una guerra ibrida che rendesse instabile il nuovo corso politico di Kyiv E’ dal 2014 che Putin non perde occasione di dire che l’Ucraina non ha un governo legittimo, perché è stato originato da un colpo di stato (e non è vero, come abbiamo appena detto, e questa è la prima e gravissima falsificazione della realtà); non solo: a ciò Putin aggiunge  che l’Ucraina stessa come nazione non è mai esistita (significativo è l’articolo da lui pubblicato nel luglio scorso) che è un’altra falsificazione, questa volta della storia, come abbiamo visto. Arriviamo quindi al terzo argomento usato da Putin per giustificare la guerra in Ucraina, iniziata nel 2014, proseguita sotto forma ibrida per 8 anni e culminata nell’invasione vera e propria del 24 febbraio.

Stiamo parlando di un’altra falsificazione che riconduce l’aggressione all’Occidente stesso, in particolare alla NATO il cui allargamento a Est sarebbe stata una deliberata aggressione alla Russia perché l’avrebbe privata del suo “spazio vitale di sicurezza”. Questo argomento si ricollega al mito della cosiddetta “promessa infranta” fatta da Washington a Mosca, precisamente da James Baker, Segretario di Stato di George Bush senior, a Gorbaciov nel luglio 1990 in occasione del negoziato che portò alla riunificazione tedesca: Baker avrebbe promesso a Gorbaciov che in cambio dell’assenso sovietico alla riunificazione, avvenuta poi 3 mesi dopo, la NATO non si sarebbe estesa neanche di un pollice (an inch) a est. Allora, sfatiamolo questo mito: tale promessa non ci fu, come è stato accertato dagli storici che hanno esaminato i documenti desecretati di quegli incontri, o meglio non ci fu nei termini citati da Putin e da altri a Mosca. In primo luogo, sul piano formale, non c’è traccia di alcun impegno scritto, ma solo la memoria di una frase, pronunciata a margine degli incontri ufficiali: nelle relazioni internazionali vale quello che è scritto e sottoscritto, non frasi pronunciate nei pranzi. Inoltre, nel merito, se anche ci fosse stata la promessa, essa si riferiva alla questione tedesca e non aveva niente a che fare con i Paesi dell’Europa orientale. Nel 1990 esistevano ancora l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia: Baker disse a Gorbaciov, mentre Kohl annuiva, semplicemente che se l’URSS acconsentiva alla riunificazione delle due Germanie, la NATO non avrebbe dispiegato le proprie basi nel territorio a est ma si riferiva ovviamente al territorio dell’allora RDT (Repubblica Democratica Tedesca), in cambio di un massiccio pacchetto di aiuti finanziari dalla Germania riunificata all’URSS, che in effetti Gorbaciov si affrettò a incassare, circostanza su cui Putin tace.

La questione dell’allargamento della NATO non poteva porsi allora perché nessuno poteva immaginare che l’URSS si sarebbe dissolta e che il Patto di Varsavia si sarebbe sciolto. Su questo falso assunto storico Putin (ma prima di lui, pur in modo meno eclatante, anche Boris Eltsin) e il Cremlino hanno costruito la teoria del c.d.  accerchiamento da parte della NATO alla Russia aggiungendo che l’ingresso dell’Ucraina, che non c’è mai stato, sarebbe stato il punto finale di tale attacco imperialista. In realtà, la forza trainante dell’espansione NATO furono non gli Stati Uniti e i membri “storici” della NATO ma gli stessi governi dell’Europa centro-europea timorosi del possibile revanscismo e nazionalismo russo volto alla ricostituzione del “mondo russo”, come in effetti è avvenuto. Se si parla di rispetto di accordi veri, e non di vaghe promesse, allora è Mosca a dover spiegare l’aperta violazione (nel 2014) degli accordi di Budapest del 1994 che prevedevano da parte russa il rispetto della sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della cessione da parte ucraina alla Russia di tutte le testate nucleari dell’URSS rimaste in territorio ucraino. Ad ogni modo, almeno fino più o meno al 2007 il dialogo politico e la cooperazione con la Russia funzionavano. Mosca non era stata umiliata né tantomeno esclusa dai centri decisionali internazionali, come Putin e i suoi hanno detto dopo: basti pensare che dal 1994 ha partecipato al G7 che da allora si è chiamato G8, nella gestione del marasma post-jugoslavo è stata coinvolta, la cooperazione con l’UE e finanche con la NATO (non dimentichiamo Pratica di Mare) esisteva e funzionava. L’irrigidimento, il confronto duro, è venuto quando Putin e il regime di Mosca hanno alzato il livello e il tono. E c’è una precisa data d’inizio, l’11 febbraio 2007, ma nonostante gli allarmi lanciati allora, i principali leader occidentali preferirono ignorarli.         


5. Quel giorno a Monaco e dopo…

Faceva freddo a Monaco di Baviera, nel pomeriggio dell’11 febbraio 2007, alla Conferenza internazionale sulla sicurezza (evento molto importante alla quale partecipa in genere il gotha politico-diplomatico internazionale) quando avvenne il punto di svolta nelle relazioni tra Russia e Occidente. Io c’ero quel giorno a Monaco, avevo accompagnato Javier Solana perché a margine c’erano colloqui sul Kosovo di cui mi occupavo, la sala era riscaldata alla tedesca, cioè in maniera eccessiva, ma dopo il discorso di Putin il sangue mi si gelò completamente Nel suo durissimo ed esplicito intervento, Putin lanciò quella che è da allora conosciuta come la “dottrina Putin”: attaccò gli Stati Uniti e il loro sistema unipolare, ma anche l’UE che ne è diventata un “cucciolo scodinzolante” ed espresse il completo rifiuto di tutto il sistema di sicurezza e cooperazione messo in piedi nel continente europeo a partire dalla fine dell’era dei blocchi.

Menzionò esplicitamente l’inserimento in tale sistema della Georgia, dell’Ucraina (e, per inciso, anche della Moldavia) come situazioni per Mosca inaccettabili aggiungendo che Mosca avrebbe fatto di tutto per sovvertire tale quadro. Quello non era un discorso, ma un avvertimento con la pistola puntata: quella sera in tanti lanciammo l’allarme, ma quei messaggi, se mai ascoltati, non furono certo compresi fino in fondo né seguiti. Nell’aprile 2008, a Bucarest, i paesi della Nato respinsero la richiesta di adesione di Georgia e Ucraina pur lasciando la porta aperta, vale a dire promettendo che Georgia e Ucraina “sarebbero un giorno potuti diventare membri della Nato”. Questa formula è nota come il compromesso Merkel, ma non fu solo lei a favorirlo, anche se fu la più determinata a ottenerlo: come disse quella sera tra le lacrime una mia collega georgiana a Bruxelles, quella era la peggiore soluzione, una vaga promessa di adesione ma senza nessun beneficio effettivo, sotto forma di vere garanzie di sicurezza, che solo l’adesione o anche una cooperazione rafforzata ma immediata avrebbe comportato. “Vedrai che in un paio di anni l’armata rossa ce la troviamo alle porte di Tbilisi…” disse la mia amica. Altro che anni, passarono pochi mesi e con quella che, fino a quel momento, era stata l’azione militare di gran lunga più significativa fuori dai suoi confini, la Russia sconfisse la Georgia in una guerra di 5 giorni dando il via libera alla secessione di Abkhazia e Ossezia del sud: a Tbilisi non ci arrivò ma solo per l’intervento in extremis di Sarkozy e della Merkel, che fu definito l’ennesimo e miracoloso salvataggio della pace ma che in realtà poneva un triste precedente, vale a dire l’accettazione del fatto compiuto, che vedremo ripetersi sei anni dopo con l’acquiescenza all’annessione russa della Crimea e con l’incapacità di frenare in maniera efficace e permanente la guerra prima ad alta poi a bassa intensità nel Donbass. Gli accordi di Minsk (1 e 2), negoziati con il c.d. “formato Normandia” erano solo delle tregue e non venne neanche definito un vero meccanismo di intervento internazionale, ma solo di osservazione. Si capiva dall’inizio che non avrebbero funzionato, così come si capiva che non solo le parti ma forse anche i negoziatori e i garanti volevano solo congelare il conflitto, non risolverlo. E questo assunto purtroppo, ve lo dico io per l’esperienza diretta nei Balcani e in Libia, non funziona mai.   


6. Come andrà a finire? Abbozzo di conclusioni.

Ci piaccia o no, la verità è che la Russia imperial-putiniana, a partire perlomeno dal secondo mandato di quest’ultimo, ha tenuto posizioni inaccettabili e quasi paranoiche, manipolando la storia e denunciando il presunto accerchiamento da parte occidentale, l’ingiustizia della “sanzioni antirusse” e i rischi di guerra, anche nucleare (come spesso fa il fido Lavrov) le cui responsabilità ricadrebbero sulla (sempre presunta) aggressività occidentale, tentando di alimentare un consenso anti-occidentale nell’opinione pubblica in grado di puntellare la deriva autoritaria e repressiva sul piano interno, di cui la vicenda dell’oppositore Alexei Navalny, con un tentato omicidio che solo Putin poteva ordinare, è una chiara evidenza. L’escalation esterna serve nei regimi autoritari anche a fini di legittimazione e consenso interni, anche se il 24 febbraio forse Mosca è andata oltre ogni ragionevole limite. Ora stiamo vedendo com’è una vera dittatura russa, con i media e le ONG di opposizione chiusi, i giornalisti minacciati di anni di prigione, la repressione sfrenata di ogni manifestazione di dissenso da parte della polizia. Di questa interrelazione tra prospettiva esterna e situazione interna bisogna tener conto, nel tentare di comprendere il passato e di indirizzare il futuro. Se c’è una colpa che si può dare all’Occidente non è quella di aver aggredito e accerchiato Mosca, ma di non aver colto in tempo i segnali e i messaggi che vi ho descritto, frenando questa escalation quando era chiaramente possibile e sarebbe stato incruento farlo, preferendo invece un approccio basato sul c.d. teorema della “stabilocrazia mercantilistica”, che, nato a Berlino si è imposto a Bruxelles e perfino a Washington.

Queste sono le radici storiche che abbiamo delineati, ma poi ci sono i motivi contingenti, importanti per rispondere a una domanda lecita “Perché proprio ora?”  Secondo me, per 4 ragioni fondamentali. La prima è che nel 2021 i prezzi di gas e petrolio sono raddoppiati e garantiscono alla Russia un flusso di cassa per finanziare l’avventura militare. La seconda è che anche la guerra in Siria era finita (guerra nella quale l’esercito russo era impegnato massicciamente nell’aiutare un altro tiranno, Assad, nel terminare il massacro iniziato 11 anni fa) permettendo di aprire un nuovo fronte.

La terza è che nell’analisi del Cremlino il blocco occidentale è diviso: gli Stati Uniti, debilitati dalla disastrosa transizione Trump-Biden, guardano quasi solo al Pacifico, e l’Europa è l’Europa, nel pieno della crisi d’identità dovuta al susseguirsi micidiali della crisi finanziaria, della Brexit e della crisi migratoria. La quarta è che Putin è convinto di trovare sponda in Cina: secondo lui, Xi Jinping ha bisogno oggi più che mai del gas e del petrolio russo per accelerare la crescita economica, e avrà bisogno in futuro di un alleato come Mosca che gli copra le spalle quando deciderà di invadere Taiwan. Su questi ultimi due punti, il suo calcolo è riuscito a sortire l’effetto contrario a quello voluto, con l’Occidente che si è più o meno compattato e la Cina che non l’ha abbracciato né si è dissociata, ma cerca di starne alla larga.

Ora chiudo , e mi scuso se mi sono dilungato troppo, abbozzando alcuni punti di conclusioni, personali:

1. Questa guerra non era inevitabile, niente è inevitabile, ma da anni ci stiamo inevitabilmente muovendo verso di essa: la Russia in primo luogo e con determinazione estrema; l’Ucraina per resistere e sopravvivere e l’Occidente, nella tenaglia dei suoi paradossi e contrastanti interessi. Le cose non dovevano andare in questo modo ed è difficile determinare quando e dove esattamente tutto è deragliato, ma dobbiamo farlo per un motivo essenziale: per far terminare la guerra, certo, ma per farla terminare in modo giusto ed evitare che se pace ci sia, essa non sia solo una tregua e non nasconda un pretesto per nuove guerre ma risulti una soluzione effettiva, “viable”, che non stravolga del tutto il quadro di sicurezza globale ed europeo. 

2. Putin non vuole la neutralità dell’Ucraina, non vuole il solo Donbass e la tutela delle comunità russofone etc.: in tal caso il conflitto si sarebbe già concluso, anzi non sarebbe mai iniziato. Putin vuole terra: l’Ucraina intera o, se dovrà accontentarsi, la metà fino al fiume Dnipro e quella meridionale e marittima, e non è detto che si fermi lì, se pensiamo a quanto sta succedendo in Moldavia e Transnistria. È altrettanto chiaro che l’Ucraina e tutti coloro che la sostengono questo disegno espansionista non possono accettarlo.

3. Putin non si fermerà fino a quando non sarà in grado di incassare un risultato in grado di consolidare il suo potere e il suo consenso interni, intaccati dall’inevitabile crollo delle condizioni di vita dei russi provocato dalle sanzioni. È lecito pensare che se non lo otterrà andrà avanti a lungo. È ingenuo pensare che possa sedersi ora al tavolo dei negoziati, così come è ingenuo e consolatorio pensare che possano esserci ora negoziati credibili. La diplomazia non si deve fermare mai, però illusioni non è lecito averne. Ciò detto, la Russia non vincerà mai del tutto questa guerra. L’ha già persa sul piano mediatico e morale, solo iniziandola.

4. Putin non è pazzo, è il prodotto paranoico di un sistema paranoico e autoritario intrappolato e ossessionato dalla logica della forza e dei rapporti di forza. Sta invecchiando, logorato da 22 anni di potere assoluto. Sembra solo, senza nessuno che lo avverta della deriva. Ma la traiettoria che lo ha portato a invadere l’Ucraina è la stessa lungo la quale si è mossa la sua carriera politica. È sempre stato tutto lì, davanti ai nostri occhi. Solo che non l’abbiamo visto o forse voluto vedere.

5. Un giorno la guerra finirà anche se purtroppo non così presto come si potrebbe sperare, e un giorno dopo, o almeno poco tempo dopo, il regime di Putin in Russia dovrà inevitabilmente cambiare. Ci sarà un’altra occasione per accogliere nuovamente la Russia nel concerto delle nazioni: sarà il caso di farlo in maniera razionale, cogliendo la lezione dell’evoluzione storica che vi ho tratteggiato, affrontando la “questione russa” come questione europea, come è stato fatto per la questione tedesca. Questo è un lavoro per il futuro. Per ora stringiamoci, in agony and simpathy, al popolo ucraino, che è la prima e vera vittima di questa guerra, e aiutiamoli, in ogni modo possibile: il nostro vero futuro di libertà e sicurezza, e non solo la temperatura dei nostri condizionatori, dipende molto dalla loro resistenza.


Autore: Michael L. Giffoni – Former Italian Ambassador to Kosovo

author avatar
Editorial1