Economia, Stato, impresa, libertà di iniziativa economica. Ancora sul rapporto tra economia reale e impresa
Prima di riprendere l’argomento sulla fondamentale importanza dell’incontro tra economia reale, finanza straordinaria ed impresa, desidero soffermarmi su alcuni concetti fondamentali, per quanto non sempre di facile lettura.
Nell’introduzione al mio ultimo articolo, come già ricordato in precedenza, ho richiamato alcune parole, di un gigante che ha illuminato il mondo: John Fitzgerald Kennedy:
“Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese …”.
Questa frase, estrapolata da un discorso più complesso, va ben al di là del significato che si potrebbe attribuire alla stessa.
In termini politici, economici e giuridici, da questa affermazione discende il valore dell’impostazione liberale dello Stato e dell’economia, che si differenzia dalla più marcata impostazione liberista.
In questo sistema, la centralità di una comunità organizzata si fonda sull’essere umano e, in economia, sulla libera impresa.
Nella lingua italiana liberismo e liberalismo non hanno lo stesso significato: mentre il primo è una dottrina economica che teorizza il disimpegno dello Stato dall’economia (perciò un’economia liberista è un’economia di mercato solo temperata da interventi esterni), il secondo è un’ideologia politica che sostiene l’esistenza di diritti fondamentali e inviolabili facenti capo all’individuo e l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (eguaglianza formale).
Non mi soffermo sulle interferenze delle dottrine politiche con il sistema democratico.
Mi limito a ricordare come tutte le scelte dell’organizzazione della collettività, non possano che tradursi in norme giuridiche di rango diverso.
Di fatto, la diversa dottrina economica liberista, ha trovato e trova applicazione in vari Stati, pur con temperamenti, in caso di situazioni di eccezionale gravità, attraverso l’intervento dello Stato nell’economia.
Franklin Delano Roosevelt, per quattro mandati Presidente degli Stati Uniti, si trovò a dover affrontare la depressione americana, che avrebbe potuto coinvolgere il mondo occidentale in un’avventura pericolosissima, senza ritorno.
Il presidente Franklin Delano Roosevelt lanciò un nuovo corso, detto New Deal, che avrebbe segnato la sua politica e sarebbe stato caratterizzato da un forte intervento dello Stato nell’economia del paese: il primo campo di applicazione delle riforme rooseveltiane è proprio il mercato del lavoro, poiché il Presidente ritenne che il fenomeno della disoccupazione (devastante dopo la crisi di Wall Street e il crollo dell’industria) andasse “risolto in parte col reclutamento diretto da parte del governo stesso”.
In buona sostanza, il governo centrale americano si era sforzato di diventare una sorta di datore di lavoro.
Inoltre il New Deal prevedeva l’introduzione di correttivi al sistema finanziario attraverso “una rigorosa supervisione di tutte le operazioni bancarie, dei crediti e degli investimenti” e la fine della “speculazione fatta sul danaro degli altri”.
Le resistenze ai programmi del New Deal non mancarono, in particolare da parte delle grandi corporations, e una battuta d’arresto arrivò anche a causa della dichiarazione di incostituzionalità di alcuni provvedimenti da parte della Corte Suprema.
Difficile pensare che Franklin Delano Roosevelt avesse abbracciato politiche da Stato socialista.
Roosevelt, anche se non riuscì completamente a conseguire l’obiettivo di ridare slancio all’iniziativa economica dei privati, ebbe il merito di capire che era necessario trovare il modo di regolare il mercato, ponendovi dei correttivi che impedissero il ripetersi dei fenomeni speculativi che avevano scatenato la crisi e la grande depressione.
Rimase, nel pensiero di Franklin Delano Roosevelt, la necessità di ridare slancio, come ho scritto, all’iniziativa economica privata.
In epoca molto più recente, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di fronte alla tragedia del Covid, adottò una serie di provvedimenti per aiutare imprese e persone, attraverso l’accredito diretto di somme di denaro, da parte dell’amministrazione centrale, sui conti correnti dei destinatari, nell’arco di pochi giorni.
Questa scelta ha poi permesso una forte crescita della domanda di occupazione, con aumento dell’inflazione che, oggi, la Federal Reserve, cerca di limitare con l’incremento del costo del denaro, di 25 punti base, secondo la recente comunicazione del 26 luglio 2023, che ha creato vibranti proteste anche negli Stati Uniti d’America.
Quanto ho scritto nelle righe che precedono è volto a sostenere che l’intervento dello Stato nell’economia deve essere assolutamente riservato a casi di crisi eccezionali e straordinarie, come accaduto negli Stati Uniti d’America con Franklin Delano Roosevelt a metà degli anni ’20 del secolo scorso, così come con la pandemia da Covid, negli USA e in Europa.
All’interno della UE, ci sono stati comportamenti differenti da parte dei diversi Stati.
Rimangono, poi, carico dello Stato e degli enti territoriali l’organizzazione e l’erogazione di servizi essenziali e fondamentali e la garanzia del rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione.
Al di fuori di questi ambiti, l’iniziativa privata deve rappresentare il fondamento dell’economia del paese e del suo sviluppo.
La storia italiana ci ha dimostrato come il nostro Stato abbia a lungo occupato numerosi settori economici ai danni della concorrenza.
Lo ha fatto ad esempio nel settore dell’energia elettrica, del telefono, del gas, dell’acqua.
Il fenomeno dello Stato imprenditore, ha assunto dimensioni rilevanti nel secondo dopoguerra per poi registrare, dai primi anni ’90, una netta inversione di tendenza con l’avvio di un vasto programma di privatizzazioni.
Assume connotati particolari il fatto che l’opinione pubblica sia ancora fortemente impregnata di statalismo: l’intervento del privato, almeno nei servizi essenziali, viene visto con diffidenza e sospetto, nel timore di una teorizzata inconciliabilità tra il profitto e l’interesse collettivo.
La nostra esperienza ha però dimostrato che non più vantaggioso per il cittadino è l’intervento pubblico nell’economia, macchiato spesso di inefficienze e sprechi, con servizi spesso di scadente qualità, poco inclini al rinnovamento e alla competitività sul mercato.
Alla luce di questa premessa sull’organizzazione politica, economica e giuridica del paese, desidero ritornare all’incontro tra la nostra economia reale, la finanza straordinaria e privata e le imprese.
Con economia reale si intende si intende quella parte dell’economia, collegata alla produzione e alla distribuzione di beni e servizi.
L’economia reale comprende dunque le imprese, le merci da esse prodotti, i terreni, gli immobili, i macchinari e tutti gli altri beni connessi alla produzione nonché i fornitori di servizi.
In questo ambito non deve essere, ovviamente, dimenticata o sottovalutata, l’occupazione, fonte di produttività e di reddito per l’impresa.
Più aumenta o, meglio, si creano le situazioni per incrementare l’occupazione, maggiore sarà la produttività dell’impresa.
All’interno dell’economia reale, le imprese ricercano risorse per effettuare i propri investimenti produttivi in attrezzature, tecnologie e risorse umane.
Ritorno, in un certo senso, al punto dal quale sono partito nel primo articolo, postato anche su LinkedIn.
La moderna economia non può che fondarsi su incontro tra finanza privata ed impresa.
È ben noto come le piccole e medie imprese costituiscano la struttura portante dell’economia italiana.
Non è un segreto che, nonostante l’aumento dell’occupazione, le imprese siano in crisi.
Questo comporta nuove scelte, in parte recepite ed enunciate dal Consiglio dell’Unione europea.
Nella Raccomandazione del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente.
Le competenze chiave indicate dalla UE sono delle competenze basilari.
Rendono cittadini in grado di riuscire ad apprendere autonomamente nuove nozioni e abilità nel corso della vita.
In questa cassetta degli attrezzi per l’apprendimento permanente troviamo anche la competenza imprenditoriale:
“La competenza imprenditoriale si riferisce alla capacità di agire sulla base di idee e opportunità e di trasformarle in valori per gli altri.
Si fonda sulla creatività, sul pensiero critico e sulla risoluzione di problemi, sull’iniziativa e sulla perseveranza, nonché sulla capacità di lavorare in modalità collaborativa al fine di programmare e gestire progetti che hanno un valore culturale, sociale o finanziario.
Conoscenze, abilità e atteggiamenti essenziali legati a tale competenza.
La competenza imprenditoriale presuppone la consapevolezza che esistono opportunità e contesti diversi nei quali è possibile trasformare le idee in azioni nell’ambito di attività personali, sociali e professionali, e la comprensione di come tali opportunità si presentano.
Le persone dovrebbero conoscere e capire gli approcci di programmazione e gestione dei progetti, in relazione sia ai processi sia alle risorse.
Dovrebbero comprendere l’economia, nonché le opportunità e le sfide sociali ed economiche cui vanno incontro i datori di lavoro, le organizzazioni o la società.
Dovrebbero inoltre conoscere i principi etici e le sfide dello sviluppo sostenibile ed essere consapevoli delle proprie forze e debolezze.
Le capacità imprenditoriali si fondano sulla creatività, che comprende immaginazione, pensiero strategico e risoluzione dei problemi, nonché riflessione critica e costruttiva in un contesto di innovazione e di processi creativi in evoluzione.
Comprendono la capacità di lavorare sia individualmente sia in modalità collaborativa in gruppo, di mobilitare risorse (umane e materiali) e di mantenere il ritmo dell’attività.
Vi rientra la capacità di assumere decisioni finanziarie relative a costi e valori.
È essenziale la capacità di comunicare e negoziare efficacemente con gli altri e di saper gestire l’incertezza, l’ambiguità e il rischio in quanto fattori rientranti nell’assunzione di decisioni informate.
Un atteggiamento imprenditoriale è caratterizzato da spirito d’iniziativa e autoconsapevolezza, proattività, lungimiranza, coraggio e perseveranza nel raggiungimento degli obiettivi.
Comprende il desiderio di motivare gli altri e la capacità di valorizzare le loro idee, di provare empatia e di prendersi cura delle persone e del mondo, e di saper accettare la responsabilità applicando approcci etici in ogni momento”.
Il “fare impresa”, è una scelta tanto determinante quanto difficile.
L’impresa è una sorta di comunità legalmente organizzata, dove si intersecano una serie di problematiche molto complesse.
Esistono problemi interni ed esterni.
Il ponte che collega queste due facce della medaglia, per così dire, è l’equilibrio economico finanziario.
Se Franklin Delano Roosevelt, oltre ad aver contribuito, in modo determinante, a sconfiggere il nazifascismo in Europa, ha avuto la capacità di intuire la necessità di un nuovo corso, del New Deal, la raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea, di recente emanazione, sembra delineare l’orizzonte del nuovo mondo dell’impresa, e con esso dell’economia e della finanza.
Ho già avuto modo di affermare che il sistema bancario è obsoleto.
Ampie zone del paese non hanno più sportelli bancari.
È altrettanto noto che le imprese sono molto in affanno.
Il ricorso al prestito bancario, ormai difficilissimo da ottenere e ad alto rischio, crea debito per l’impresa.
Moltissimi imprenditori, che potrebbero vedere crescere la propria impresa e scommettere su nuove produzioni, sempre d’eccellenza, mercati, incremento dell’occupazione, rifiutano di prendere in considerazione una alleanza temporanea con un fondo, che tuteli l’italianità dell’azienda ed il suo sviluppo, l’aumento di fatturato e redditività, perché ritengono che al timone della loro nave, per così dire, devono rimanere solo loro.
Si tratta di un’idea superata.
È vero che i fondi che scelgono l’investimento nelle imprese italiane, apportano denaro al capitale sociale e, quindi, di rischio, e chiedono di rimanere in maggioranza nella compagine sociale.
Ma questo non toglie la gestione all’imprenditore.
Il fondo deve raccogliere denaro, da restituire agli investitori che gli hanno dato fiducia.
Tra questi, in varie parti del mondo, ci sono i cosiddetti investitori istituzionali, fra i quali si annoverano le banche, anche le più grandi al mondo.
Se una banca ritiene di affidarsi ad un fondo, per aumentare i propri profitti, evidentemente la ragione è che questo risultato può e deve essere conseguito, al di fuori del sistema bancario.
All’imprenditore è chiesto di continuare a lavorare bene e meglio, viene messo in condizione di utilizzare gli investimenti del fondo per modernizzare l’azienda, per creare nuovi prodotti, per aumentare l’ambito dei mercati, differenziandoli a seconda di possibili momenti di crisi di questa o quell’area.
Il fondo deve rientrare dell’investimento, maggiorato di un guadagno, che deve essere distribuito tra il fondo stesso e gli investitori.
L’imprenditore, in qualità di socio, vede aumentare gli utili in proporzione alla propria partecipazione nel capitale sociale.
Nell’ambito del private equity, l’impresa deve piacere, deve poter competere sul mercato ed aprire nuovi spazi di mercato.
Deve essere almeno una piccola impresa, vale a dire con un fatturato annuo di almeno due milioni di euro.
Non si esclude la media e grande impresa.
I settori di investimento sono tra i più differenziati, dall’agricoltura, alla ristorazione, alla nuova tecnologia applicata a quest’ultima, agli alimentari, ai centri estetici e così via.
Persino il settore delle agenzie di viaggio ha ricevuto il sostegno di fondi di private equity.
Il punto focale dalla richiamata Raccomandazione del Consiglio europeo, è rappresentato, a mio modesto avviso, dalla più volte richiamata nozione di “creatività”, alla quale mi sento molto legato, come ai sogni.
I sogni devono tradursi in progetti, sulla base di un sano ed accortissimo pragmatismo e concretezza.
Che cosa è la creatività se non il sogno, tradotto in intuizione concreta, dell’essere umano?
Il secondo punto fondamentale, personalmente, lo individuo nella capacità di “assumere decisioni finanziarie”
Normalmente, la partecipazione al capitale sociale dell’impresa, dura cinque anni.
Tutto è regolato da patti sociali vincolanti e blindati, a garanzia della posizione di entrambe le parti.
La fase di uscita del socio può richiedere sino a cinque ulteriori anni, a seconda degli accordi e delle concrete opportunità.
Questo arco di tempo dipende dalla volontà dell’imprenditore di riacquistare tutte le partecipazioni, da restituire in un intervallo di tempo variabile, oppure dalla necessità di trovare un uovo partner industriale o finanziari, vale a dire un altro fondo, o da valutazioni ed opportunità diverse.
L’imprenditore non si troverà nella situazione di partenza, ma con un’azienda con maggior redditività, fatturato, dimensioni.
In ultima analisi, l’impresa sarà più grande, più competitiva, maggiormente capace di espandersi ulteriormente.
L’obiettivo del fondo è, spesso, accompagnare la società, nella quale è entrata come socio, a quotarsi in Borsa, con la creazione di nuovi investimenti sul capitale sociale che, in questo caso, diventa capitale flottante.
Sembrerebbe una ipotesi bizzarra e, in qualche modo, impressionante o estranea alla realtà, ma fa già parte della storia di imprese che si sono affidate al settore della finanza privata.
La normativa prevede strumenti di aggregazione di imprese, come le reti di impresa.
A mio parere sono già superate dalle esigenze economiche ed imprenditoriali.
Sarebbe molto più conveniente e profittevole, creare una holding di partecipazioni, alla quale ogni impresa conferisce i propri beni, partecipata da un fondo di private equity.
Ovviamente, non si può pretendere che un fondo entri con una maggioranza del capitale che superi il 60-65% del capitale sociale.
È evidente che l’imprenditore deve partecipare all’aumento del capitale sociale, per equilibrare le posizioni tra i soci.
Diversamente, si tratterebbe di pretendere di fare impresa con i soldi di terzi, ipotesi sconosciuta alla realtà naturalistica ed economica.
Ripeto.
A differenza dei prestiti bancari, che creano debito, l’ingresso nel capitale sociale di un terzo no.
L’impresa italiana, eccellenza mondiale, merita di crescere, secondo più moderni strumenti.
Una banca che rilascia un prestito, indipendentemente dal fatto che si tratta di casi impossibili e molto pericolosi, è un creditore che costa, che vuole indietro il denaro, come e logico, è gli interessi.
Questo non avviene con un fondo di private equity, che è un socio, che guadagna dai dividendi, così come l’imprenditore e, al momento dello scioglimento del rapporto, cede la sua quota di partecipazione.
Bisogna essere più precisi.
Un fondo di private equity, deve guadagnare sul capitale investito.
Da questo discende il ritorno economico per l’imprenditore.
Il principio, di essenziale importanza, sotteso alla scelta di aumentare capacità produttiva, redditività e fatturato delle imprese, attraverso il ricorso alla finanza privata, con operazioni straordinarie, è, in ultima analisi, la creazione di nuova ricchezza.
Questo compito è affidato, prima di tutto, proprio all’imprenditore, in un sistema di economia liberale.
In questo senso, desidero ricordare un’affermazione del Premio Nobel per l’economia, Franco Modigliani, italiano naturalizzato statunitense:
“Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche al mondo. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti.”
Dunque, è possibile ovviare ad una burocrazia ottocentesca ed ancora organizzata contro l’interesse del paese, che continua, da decenni, a non funzionare?
È possibile superare la crisi di rappresentatività del sistema politico?
A mio parere, il moderno sistema economico è in grado di far fronte a tutti questi problemi.
Bisogna cambiare mentalità, guardare a nuovi orizzonti, sulla base di strumenti già a disposizione.
Vogliamo accogliere le riflessioni di Franco Modigliani ed affrontare la sfida che ne scaturisce?
Le imprese italiane devono ingrandirsi, e diventare sempre più competitive, nel garantire la nostra eccellenza, in tutti i settori, ad un prezzo che possa comunque invogliare l’acquirente a comprare prodotti italiani, in un regime di concorrenza non falsata al ribasso.
Author: Claudio Gandini
Iscritto all’Ordine degli avvocati di Milano e patrocinante presso le giurisdizioni superiori ed a quelle dell’Unione Europea. Svolge attività in materia di consulenza d’impresa.