Il sogno e la ricerca di materiali alternativi
L’effetto “Greta Thunberg” ha travolto l’opinione pubblica e contribuito a far aumentare il livello di attenzione sui temi dello sviluppo sostenibile e dei cambiamenti climatici. Lo stiamo notando nei crescenti spazi riservati all’argomento da parte dei media ma anche nelle sollecitazioni a comportamenti virtuosi che si avvertono, di conseguenza, nell’opinione pubblica e, ragionando in ottica aziendale, nella richiesta di eticità ambientale che proviene da una buona parte di consumatori.
È il tema della plastica e dell’inquinamento relativo quello che maggiormente coinvolge: tutti vediamo articoli e campagne dedicate, immagini di mari e oceani sommersi da bottigliette e sacchetti e, reduci dalle vacanze estive, probabilmente abbiamo avuto modo noi stessi di vedere concretamente situazioni di incuria.
La sfida per un mondo migliore, avendo toccato buona parte delle persone, inevitabilmente tocca ora e toccherà sempre più nel tempo le aziende, e non solamente per il fatto che molte di loro dovranno adeguarsi alle normative (si pensi, in questo caso, alla direttiva europea contro la plastica monouso).
Ora più che mai si possono scorgere campagne pubblicitarie di noti brand cavalcare l’onda ecologista e autoproclamarsi “green”: veniamo così invitati a un uso responsabile della confezione, a restituirla in nome di un possibile riciclo (ma spesso da effettuarsi in negozi appositi e senza incentivare il comportamento virtuoso del consumatore) e vediamo indicazioni di utilizzo di materiali riciclati (con spesso l’indicazione “fino al 50%” che presuppone una percentuale inferiore).
Il cambiamento da rilevare, in ogni caso, è la presenza di un consumatore sempre più attento a questi temi direttamente al momento della scelta d’acquisto nel punto vendita.
Occorrerà però uno sforzo ulteriore da parte delle aziende, le quali dovranno alzare l’asticella delle loro attenzioni ambientali, sia per venire incontro a un utente sempre più sensibile, sia per una reale responsabilità etica.
Otto milioni di tonnellate di plastica l’anno finiscono negli oceani e c’è bisogno di soluzioni in qualche modo drastiche che coinvolgano anche le aziende produttrici, visto che un approccio meno attento a quanta plastica effettivamente si immette nel mercato, che pone maggiormente l’attenzione alla fase successiva (del possibile riciclo), mostra la sua debolezza a partire dai dati: l’Ocse afferma che al mondo solamente il 15% dei rifiuti in plastica viene riciclato, il 25% viene bruciato in inceneritori o termovalorizzatori, mentre il restante 60% finisce in discarica, viene bruciato rilasciando inquinanti e gas serra o si disperde nell’ambiente. Numeri troppo bassi da un lato e troppo alti dall’altro per immaginarci cambiamenti sostanziali negli anni a venire.
La gravità delle cifre suggerisce che la questione possa essere risolta solamente affrontando le reali cause alla radice e che occorre con forza prendere posizione e ribadire la necessità, da parte degli attori in gioco, di una sensibile riduzione proprio della produzione e dell’utilizzo della plastica, considerando il riciclo successivo buona cosa ma di certo non la soluzione definitiva al problema.
Per far ciò le aziende dovrebbero riprogettare i propri imballaggi, immettere sui mercati materiali alternativi, ecologici, facilmente compostabili e costituiti da fonti rinnovabili, che possano sostituire credibilmente la plastica e ridurre il suo impatto sull’ambiente, certi che nei vari casi possa rivelarsi una scelta etica e al tempo stesso in grado di soddisfare un’esigenza di mercato.
Se dovremmo avere una certa coscienza ambientale che ci impedisca di abbandonare scriteriatamente (di qualsiasi tipo, e la biodegradabilità dei materiali non ci dovrà certo far sentire deresponsabilizzati in questo) questa dovrà essere accompagnata, quando effettivamente possibile, da altri comportamenti: se la ricerca di nuovi materiali per gli imballaggi appare la soluzione in qualche modo orientata al futuro, efficaci si presenterebbero anche formule solo apparentemente antiche, sintetizzabili nelle formule di “vuoto a rendere” o più genericamente in una serie di soluzioni che in ogni caso incitino realmente e con un vantaggio tangibile il ritorno dell’imballaggio nel punto vendita e un riutilizzo di questo per lo stesso fine, pur riconoscendo le difficoltà che potrebbero comportare in termini di gestione per i centri vendita, specialmente di media grande dimensione.
In sostanza, per ridurre la produzione di plastica occorrerà fornire una reale alternativa al consumatore, educandolo a evitare la dispersione di materiali nell’ambiente figlia della cultura dell’usa e getta, ma offrendogli al tempo stesso soluzioni concrete, basate su materiali diversamente impattanti o su forme di riutilizzo laddove possibili, e tutto già nel punto vendita.
È quindi il concetto di “compostabile”, di “biodegradabile” accanto a quello di “cultura ed educazione ambientale” quello su cui si dovrà giocare la partita.
A corredo di questa considerazione, non possiamo non segnalare il fatto che viviamo in un mondo in cui il progresso tecnologico e le conquiste della scienza costituiscono una costante e che già esistono gruppi di lavoro dedicati alla ricerca di materiali alternativi e a pari costo, i quali stanno proseguendo la loro attività di studio con brevetti e soluzioni già sperimentate (o in via di sperimentazione) da adattare specificatamente alle varie realtà. Nella più vasta scala possibile accompagnati dall’applicazione di sano buonsenso e dall’auspicata sempre maggior crescita culturale sui temi ambientali, dovranno esser loro a condurci verso quel un mondo migliore che ora appare solamente un’utopia.
Vittorio Guabello
AEG Corporation
MAG nr.5, settembre-ottobre 2019