L’importanza di chiamarsi Ucraina
L’Ucraina è ciò che in ambito geofilosofico si suole definire un “luogo del destino”, cioè una terra condannata dalla geografia a essere importante. Sempre. Comunque. Per chiunque. Perché l’uomo non può cambiare ciò che la geografia ha decretato: è la geografia che determina la politica – e non il contrario. Una legge non scritta, per quanto ferrea e inalterabile, tentativamente codificata nell’oggi inflazionata geopolitica.
La scrittura del nuovo capitolo dell’eterna guerra fredda tra la civiltà occidentale e la russosfera ha avuto inizio in Ucraina e non avrebbe potuto essere altrimenti. Luogo del destino e huntingtoniana linea di faglia intercivilizzazionale, l’Ucraina è ed è stata tante cose, talvolta contemporaneamente, nel corso dei secoli: fonte battesimale della nazione russa, provincia della Confederazione polacco-lituana, mela d’oro dell’Impero ottomano, appendice austroungarica. E oggi è uno dei perni della geostrategia statunitense per l’Eurasia. Una rilevanza data dalla fertilità del suo suolo, dalle ricchezze contenute sottoterra, dalla sua estensione lungo il Mar Nero e dal suo perfetto incuneamento fra Occidente, Mondo russo e Turcosfera. Avere potestà genitoriale sull’Ucraina, in sintesi, equivale a disporre di una fabbrica, di un ariete e di una leva di pressione.
Volodymyr Zelenskij non avrebbe potuto evitare l’invasione. Vladimir Putin non era nelle condizioni di risolvere la questione diplomaticamente. Vittime del destino, come si suol dire, più che loro padroni. La guerra sarebbe scoppiata comunque, con o senza Zelenskij e con o senza Putin, un po’ perché l’Ucraina non ha il controllo di sé stessa – in quanto possedimento satellitare degli Stati Uniti dal 2014 – e un po’ perché per la Russia era ed è fatto a metà tra l’imperativo strategico e il fattore identitario.
Gli Stati Uniti avrebbero difeso l’Ucraina da un’aggressione russa ad ogni costo, con o senza Zelenskij, perché dal mantenimento di questa nazione nella sfera di influenza occidentale dipende la loro intera geostrategia per l’Eurasia. Ma vero è che Zelenskij, il comico diventato presidente, ha fatto un’enorme differenza nel plasmare e condizionare la traiettoria degli eventi.
Il Cremlino coltivava l’aspettativa di una fuga alla Tikhanovskaya o alla Ghani, ma Zelenskij è rimasto. Il Cremlino serbava la speranza di un colpo di stato trainato dalle forze armate, ma Zelenskij ha ottenuto la fiducia dei militari. Il Cremlino sperava di alimentare tensioni interetniche in parallelo alla guerra, ma Zelenskij si è trasformato in un simbolo di unità nazionale, nell’imprevedibile e improbabile padre fondatore di una nazione della quale Putin aveva negato la genuinità e il diritto ad esistere all’alba del conflitto. Il Cremlino confidava in un’operazione lampo in stile Georgia 2008, ma Zelenskij lo ha ingabbiato in una guerra semi-simmetrica di logoramento. Il Cremlino è maestro nell’arte della disinformazione, ma Zelenskij ha pionierizzato un nuovo modo di fare propaganda in tempo di guerra che non ha dato scampo ai russi, sia in Occidente sia in parte dello spazio postsovietico, e che è destinato a fare scuola. E Zelenskij, soprattutto, è stato colui che ha persuaso una inizialmente riluttante Unione Europea ad aderire entusiasticamente alla guerra a mezzo di denaro e (tante) armi.
Se al posto di Zelenskij ci fosse stato Petro Poroshenko, impopolare in patria come all’estero, è probabile che gli Stati Uniti non sarebbero riusciti a fare dell’Ucraina ciò che è oggi: trincea della prima guerra della NATO contro una grande potenza, pantano simil-afghano per la Russia, bocca di lupo nella quale ferire (forse) mortalmente l’autonomia strategica europea e laboratorio in cui sperimentare quella “guerra senza limiti” teorizzata a Pechino nel 1999.
Poroshenko non era riuscito ad attivare la procedura di adesione all’Unione Europea, nonostante l’occupazione della Crimea e lo scoppio della guerra nel Donbass. Non era riuscito ad ottenere delle sanzioni in grado di spezzare l’asse eurorusso. Non era riuscito ad impedire che all’inverno facesse seguito la primavera. Zelenskij, con il supporto della presidenza Biden e aiutato dalle decisioni scellerate di Putin, verrà invece ricordato per aver seppellito il Nord Stream 2, affossato l’autonomia strategica europea dell’asse francotedesco e reso la Russia il paese più sanzionato del pianeta – e della storia.
L’Ucraina continuerà a rivestire un ruolo centrale nelle dinamiche internazionali negli anni a venire: con o senza Zelenskij, e con o senza Putin. Perché non sarà un mero cambio di guardia al Cremlino a determinare l’avviamento di una politica estera che non contempli l’esistenza di linee rosse. Putin, del resto, non è che il “figlio” di Evgenij Primakov, colui che dopo aver implorato invano Bill Clinton di non bombardare la Serbia nel 1999 in nome della cooperazione russo-americana giurò di gettare le basi di un sistema multipolare. E chiunque succederà a Putin, sarà stato a sua volta testimone dei tradimenti, degli sgambetti e dei conflitti che ne hanno contraddistinto l’era.
Autore: Emanuel Pietrobon